A 13 anni aveva pensato al suicidio lei, la neonata con le meches

“Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere? Io faccio entrare in voi lo Spirito e rivivrete” (Ez 37, 4-5)
Potrebbero essere queste due semplici frasi a riassumere la mia esperienza di vita.
Sono la terzogenita di quattro figli, nata in una famiglia modesta, umile, vissuta sempre in un alloggio popolare nella periferia di B., un quartiere difficile e spesso menzionato nei diversi tg a causa di spiacevoli eventi di cronaca nera. Nascevo e crescevo qui, più o meno spensierata, da mamma L. e papà C., non amavo molto studiare e avevo pochissime ambizioni; avvertivo forte il peso delle ristrettezze economiche, dei sacrifici affrontati dalla mia famiglia per poter andare avanti con dignità e tanta lealtà.
Sarà stato forse questo clima pesante, austero, fatto di rigide regole, di tante indicazioni sul fare bene per non perdersi, o forse quella strana sensazione, smascherata poi come il grande inganno della mia vita, di essere il terzo tentativo per avere un figlio maschio arrivato dopo di me, a fare da contorno a quello che potrei definire un male di vivere, tanto che all’età di 13 anni (per paura che si sapesse di me che ero fidanzata) cercai di porre fine alla mia vita. Senza dire niente a nessuno delle mie intenzioni, un sabato sera mi accostai all’uscio della porta del salone e semplicemente osservandola da lontano, salutavo così la mia famiglia prima di ingerire dei farmaci di mia nonna e mettermi a letto, sicura che l’alba non mi avrebbe svegliata. E invece l’indomani mattina un raggio di sole chiese ai miei occhi di aprirsi perché un nuovo giorno mi attendeva. Cosa era andato storto? Perché c’ero ancora?
Soltanto un’ingenua avrebbe potuto pensare di addormentarsi per sempre con due compresse per le vene varicose ed una per l’ipertensione. Ma la gravità non era nel mezzo utilizzato quanto nel gesto compiuto.

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Poteva la morte essere un rimedio? Certo che no! Chissà quanta sofferenza avrei causato, sensi di colpa, chissà quanto avrebbe vagato la mia stessa anima prima di trovare pace, semmai l’avesse trovata…
Qualcuno aveva deciso che quello non sarebbe stato il mio ultimo giorno di viaggio, ma soltanto uno di quelli un po’ più faticosi, dai quali si può venir fuori soltanto con l’amore. Sì, ma quale?
Quello che era stato messo in me fin dall’inizio e che senza saperlo aveva affascinato medici e paramedici, i quali incuriositi per tre turni di fila erano venuti a farmi visita, visto che in corsia non si parlava altro che di quella strana nascita: una bambina con le meches. Ero io quella bimba, nelle cui ciocche di capelli si intravedeva lo splendore di un amore Altro, che poi si è rivelato presentandosi qual era, uno splendore ai miei occhi, avendo addirittura l’ardire di consegnarmi questa parola di salvezza: “Tu sei degna di stima, perché ti amo”.
Sono trascorsi così da quel sabato sera ventinove anni, sempre alla ricerca di quel Creatore un po’ folle che mi aveva regalato oltre ai miei tanti talenti scoperti con gli occhi altrui, anche e soprattutto l’amore umano fatto di relazioni e tra tanti quello nuziale con N., sì quel primo ed unico fidanzato che dai miei tredici anni in poi mi ha sopportata e supportata, amata, incoraggiata nei miei studi fino alla laurea. Insieme abbiamo attraversato le difficoltà della vita, tante, tantissime: ma sono state la nostra palestra in cui esercitare la pazienza, l’attesa, la speranza, ma soprattutto il dono reciproco di spendersi senza misura e accogliersi sempre. Sono proprio questi due ultimi termini, dono e accoglienza, ad aver fatto la differenza tanto da condurci per mano nella scelta di accogliere M. per un progetto di affido ed ora, a quasi sette mesi dal suo arrivo a casa nostra, lo vediamo crescere, combattere le sue battaglie, gioire per i tanti piccoli successi raggiunti, avvilirsi per ciò che ancora non va. Quanta vita!
Siamo certi di non essere mai soli, ma di essere accompagnati da quell’Amore che ha vinto e sconfitto la morte per sempre ed è per questo che nei bui delle nostre esistenze può ripeterci ancora: “Io faccio entrare in voi lo Spirito e rivivrete”.
Grata per tutta la vita che mi è stata donata e che custodisco come mio unico ed inestimabile bene.

Editoriale Luce e Vita n.6 del 5/2/2023

D.M.D.

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