Custodire la morte, celebrare la vita

La nostra fede cristiana ha al cuore la passione, morte e resurrezione di Cristo. La morte come supremo atto di carità, compimento delle Scritture, per cui anche nel nostro tempo in cui si rimuove la morte le chiese cristiane celebrano la morte e resurrezione di Cristo con i riti di congedo dalla vita terrena per i battezzati che hanno creduto e che hanno vissuto l’appartenenza alla Chiesa ascoltando l’annuncio evangelico dell’opera di Cristo per noi e per la nostra salvezza.

Le statistiche ci dicono che ormai da tempo il numero dei funerali celebrati in chiesa è ben superiore a quello dei battesimi e dei matrimoni santificati. Riprendendo le riflessioni di B. Salvarani, possiamo dire che permane la celebrazione delle esequie cristiane nelle nostre chiese e la benedizione delle sepolture, come se le religioni fossero i soli organismi sociali ad aver conservato parole per dire la morte. Il processo di privatizzazione della morte d’altra parte, porta anche a consolidare il rito dell’addio da questo mondo per ciascun defunto e a riunirsi nella ricorrenza della data in cui si fa memoria del proprio defunto.

Da tempo è in atto un processo di desacralizzazione e di svilimento della morte. Bonhoeffer intravedeva nella prima metà del ‘900 il tempo completamente non-religioso che si stava preparando. Ora anche coloro che dicono di essere religiosi non lo sono, perché con «religioso» intendono qualcos’altro. È come se alla fede cristiana fosse stato affidato il compito di custodire la morte che in sé riassume tutta la vita, e alla morte il linguaggio e le parole per proclamare la fede cristiana. Nella professione di fede domenicale diciamo che Gesù Cristo morì e fu sepolto e aspetto la resurrezione dai morti.

In tutto questo la Commemorazione dei fedeli defunti segna una accentuazione di ciò che i primi cristiani vivevano in ogni momento nella comunione dei santi e nella condivisione dei beni spirituali. La ricorrenza del 2 novembre ci fa fare memoria dei morti  che sono stati in mezzo a noi, che ci appartengono.

Il ricordo si estende anche a tutti gli esseri umani e a tutte le creature. È giorno di grandi riflessioni su una condizione che ci unisce tutti. A volte preferiamo evitare il pensiero della morte, o coprendoci gli occhi o immergendoci nell’attivismo e nelle relazioni immediate, ubriacandoci di tante notizie con le emozioni che possono suscitare fino all’indifferenza. Ricordando tutti i defunti che ci hanno preceduto nella fede continuiamo la festa di tutti i santi, nel senso che ci rendiamo conto che la nostra vita e la nostra fede ci unisce con quelli che ci hanno preceduto, per i quali abbiamo sempre sentimenti di gratitudine e di affetto, ma ci unisce anche con i viventi con i quali a volte facciamo difficoltà a rapportarci e ad esprimere i nostri sentimenti.

La comunione è con tutti gli esseri umani e, oserei dire con tutte le creature che, per il fatto stesso di essere create, sono soggette anche alla finitudine terrena. Nel discorso all’Areopago, san Paolo dice che «in lui infatti, viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28). E, a proposito delle creature umane, sant’Agostino ci dice che esse non esisterebbero se non fossero in Dio. Ricordare i defunti vuol dire riconoscere che è in Dio che sono i nostri cari che ci hanno preceduto e in Dio vivono quelli che ci accompagnano in vita sulla terra. Il santo vescovo di Tagaste nel libro decimo delle Confessioni dedicato alla ricerca di Dio, alla memoria e alle presenti condizioni del suo spirito afferma, mentre continua a dare del tu a Dio, che «mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te… Quando mi sarò unito  a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te»

don Giovanni de Nicolo, Direttore Uff. per l’Ecumenismo